Roberto Maggiori, originario di San Severino, fondatore e direttore della Editrice Quinlan (specializzata in editoria fotografica; sito: http://www.aroundphotography.it/casaeditrice.asp), dopo una lunga esperienza a Bologna, ha trasferito da pochi anni la sede della propria attività nel territorio settempedano. Data la particolarità di tale lavoro, abbiamo deciso di intervistarlo per conoscere maggiormente il suo mondo ed il proprio impegno in un settore complesso come quello della fotografia d’autore.
Casa editrice Quinlan: un catalogo ampio, da maestri della fotografia come Nino Migliori e Paolo Gioli, a testi di Storia della fotografia, di fotografia industriale, antropologica, paesaggistica, ecc., con saggisti di chiara fama come Goffredo Fofi, Claudio Marra, Italo Zannier. Ci dica qualcosa su queste variegate scelte editoriali.
«Abbiamo sempre avuto un approccio trasversale sin dal 2003 con la nostra prima pubblicazione, la rivista “Around Photography”, che può essere considerato il primo esperimento editoriale in Italia in cui la fotografia sia stata indagata da un punto di vista interdisciplinare, coinvolgendo critici e addetti ai lavori provenienti da ambiti diversi (cinema, arti visive, architettura, mass media, storia e teoria della fotografia), costituendo una palestra fondamentale per la critica italiana e uno spartiacque sul modo di intendere la fotografia d’autore. Ci interessa quindi un discorso sulla fotografia a 360°, non a caso il primo libro che abbiamo pubblicato è stato la riedizione dell’introvabile La fotografia. Illusione o rivelazione?, in cui studiosi come Claudio Marra e Francesca Alinovi affrontano aspetti apparentemente contraddittori, ma in realtà complementari, come l’illusione immaginaria e l’impronta realista, in altre parole la finzione o la verità che la fotografia può veicolare. Tra le riedizioni “illustri” ricordo poi un classico come la Storia della fotografia italiana, in cui si affrontano periodi storici molto diversi, dall’Ottocento agli anni ’60 del Novecento. Anche questo era un saggio introvabile degli anni ’80, scritto da Italo Zannier, decano degli studi sulla fotografia nel nostro paese e non solo.
Abbiamo pubblicato inoltre importanti lavori inediti di giovani studiosi come Vedermi alla terza persona, la prima monografia mai edita in Italia su un’artista importante come Claude Cahun, scritta da Clara Carpanini, o il primo saggio sulla Storia della fotografia industriale in Italia, realizzato da Angelo Pietro Desole, lavori che mi piace definire piccole pietre miliari nell’ambito degli studi sulla fotografia. La stessa trasversalità è stata applicata alle scelte dei cataloghi illustrati, tanto per fare un paio di esempi, abbiamo spaziato da Il passato è un mosaico da incontrare, che con le sue 238 immagini è ad oggi il volume più completo sul periodo “Neorealista” di Nino Migliori, a My Posters, la prima pubblicazione fatta con una casa editrice da un allora sconosciuto Jacopo Benassi, oppure lavori inediti altrove come Naturae di Paolo Gioli, alcuni scorci della Farnsworth House di Mies van der Rohe fotografati da Guido Guidi, i manifesti pornografici degli anni ’70 ripresi da Marialba Russo o la serie Tra albe e tramonti di Luigi Ghirri.
Oltre ai nomi che ha citato, introduzioni ai nostri saggi o interventi sulla rivista, sono stati scritti, tra gli altri, da critici come Michele Smargiassi, Elio Grazioli, Vittorio Sgarbi, Gabriele D’Autilia, Marco Senaldi, Francesco Zanot, Luca Panaro, Renato Barilli, Goffredo Fofi, Antonello Frongia, studiosi provenienti da scuole di pensiero diverse in grado di chiudere l’angolo a 360° di cui ho accennato in apertura».
Nino Migliori è uno dei più importanti fotografi italiani viventi, ed è molto presente nel catalogo Quinlan. Può dirci qualcosa su di lui? Come è nata la collaborazione con la casa editrice?
«Nino è uno sperimentatore infaticabile e un entusiasta fotografo di ricerca, il suo lavoro ha spaziato in ambiti molto diversi, la sua indomabile curiosità e il non porsi limiti è un po’ anche la curiosità e l’orizzonte osservato da Quinlan. Avendo io vissuto per quasi trent’anni a Bologna, dove Migliori abita, era inevitabile che ci conoscessimo. Stimandoci a vicenda, tra un piatto di tagliatelle e un bicchiere di lambrusco, è nata con gli anni una bella amicizia e di conseguenza un’intensa collaborazione. Oltre ad aver pubblicato diversi libri di Migliori ho avuto il piacere di curare sue mostre in giro per l’Italia e, approfondendo il suo lavoro, ho finito con lo scrivere anche un saggio: Nino Migliori. Settant’anni di fotografia e arti visive».
Come ci si può, oggi, occupare di fotografia in maniera professionale, in un mondo dove tutti sono diventati “fotografi” grazie alle veloci tecnologie digitali e ai social network tipo Instagram?
«Le professioni legate al mondo della fotografia sono davvero tante, chi si specializza in una di queste offre naturalmente un servizio qualitativamente non comparabile a quello di chi gioca occasionalmente con la macchina fotografica o il telefonino. Fa eccezione il fotogiornalismo dove la velocità d’informazione e il valore aggiunto dell’essere nel posto giusto al momento giusto, fanno preferire, giustamente, l’immagine non perfetta di chi è casualmente presente sul luogo dell’avvenimento, al posto della fotografia di un fotoreporter accreditato che ricostruisce (e purtroppo spesso “imbelletta”) i fatti in un secondo momento.
Per quanto riguarda l’Editrice Quinlan, non ci occupiamo di fotografia professionale, ma di fotografia d’autore con ambizioni culturali, il che significa prescindere da una committenza. Mi chiede come ci si possa occupare di fotografia quando siamo ormai tutti “fotografi”, ma attenzione, usare una penna non fa di qualcuno un saggista, un poeta o un romanziere, lo stesso si può dire per la macchina fotografica o qualsiasi altro strumento di registrazione visiva. Ci interessano ovviamente anche macrocategorie come le pratiche antropologiche che fanno parte della fenomenologia della percezione visiva mediata dai dispositivi tecnologici, ma una cosa e la langue e un’altra la parole. Per dirla in maniera meno astrusa cito Italo Zannier che in una magnifica sintesi distingue tra Fotografi e “fotografatori” o “fotografisti”, aggiungendo che il discrimine non lo fa la tecnica, acquisibile in un mesetto da qualsiasi fotoamatore, ma la visione e il linguaggio di un autore, che è poi il frutto del suo talento, della sua cultura e intelligenza».
Si parla continuamente di crisi dell’editoria: dai giornali ai libri, in Italia sembrano resistere solo i “grandi” nomi editoriali. Com’è, in particolare, la situazione dell’editoria fotografica? Ha un nutrito pubblico e mercato?
«L’editoria rivolta alla fotografia colta, non ha ancora un vasto pubblico, né un mercato significativo, come del resto la maggior parte di ciò che concerne l’ambito culturale innovativo in Italia. Fa eccezione la fotografia di moda che può contare su committenze di un certo rilievo economico, ma solo se si coinvolgono autori con una certa fama.»
Per curiosità, come mai ha scelto il nome “Quinlan”?
«Nel 2003 dovevo iscrivere la casa editrice alla camera di commercio, non avendo grandi idee per il nome mi è venuto in aiuto un poster che allora tenevo in casa, era un’illustrazione de L’infernale Quinlan, il film di Orson Welles, con il quale ho trovato diverse analogie. Tanto per cominciare il protagonista sembra una canaglia, ma in fondo fa ciò che va fatto. Per occuparsi di editoria fotografica in Italia bisogna effettivamente scendere all’Inferno e cercare di risalire piano piano. “Hoc opus, hic labor est”, scriveva Virgilio, che di Inferni se ne intendeva. Il nome Editrice Quinlan rimanda poi a un immaginario cinematografico “spaghetti”, un immaginario di serie B, qualcosa piuttosto distante dall’Establishment con le sue consuetudini timorose e ingessate, così come è distante dalla produzione commerciale più alla moda. Infine Orson Welles veniva definito one man band dal momento che assumeva contemporaneamente i ruoli di attore, produttore, regista, scrittore, ecc. Pur con i doverosi distinguo, anch’io potevo definirmi un po’ “uomo orchestra” essendo allo stesso tempo editore, critico, photoeditor, direttore, produttore, correttore delle bozze, agente pubblicitario, addetto stampa, magazziniere, e così via».
La sua casa editrice è qui a San Severino, nel maceratese. Com’è la vita delle case editrici di provincia?
«L’Editrice Quinlan è stata per tredici anni a Bologna, solo da tre ci siamo trasferiti nella provincia di Macerata. C’è da dire che con i nuovi strumenti di comunicazione e movimentazione delle merci ormai un posto vale l’altro, perlomeno dopo un primo periodo in cui si sia costruita una solida rete di relazioni professionali in luoghi adatti a questo scopo, nel nostro caso città universitarie con musei importanti, ecc. Oggi la casa editrice è stata acquisita da Moviproject, una Cooperativa sociale che ha il “campo base” a San Severino, ci spostiamo comunque continuamente per presentazioni, fiere, mostre, incontri con autori e critici, e seguiamo la stampa dei volumi nelle varie tipografie che utilizziamo in tutta Italia. Il nostro distributore nazionale è sempre lo stesso, per cui spedirgli i libri da Bologna o dall’entroterra marchigiano è alla fine irrilevante. Quello di cui si sente la mancanza in provincia non sono tanto i rapporti professionali che continuano per telefono o appuntamenti mirati, quanto le relazioni umane quotidiane con addetti ai lavori e colleghi, a queste latitudini praticamente inesistenti».
Per concludere, dopo l’ultimo libro edito: VITA MAYER. Iconografia di una fabbrica (a cura di Maurizio Giufrè), quali sono i futuri progetti della Quinlan?
«A breve uscirà un fotolibro sul ritratto fotografico, parteciperanno più di venti artisti italiani per un periodo che va dagli anni ’50 ad oggi, è previsto inoltre un saggio sul libro d’artista, argomento da qualche anno di moda nel nostro Paese, ma su cui mancano studi approfonditi. Stiamo poi lavorando a una “cosa grossa” di rilevanza internazionale. Uscirà a maggio, ma non posso al momento anticipare nulla di più.»
Silvio Gobbi